REGIA: OSEI KUFFOUR

ATTORI: MAMOU DOU ATHIE, PHYLICIA RASHAD, AMANDA CHRISTINE

REPERIBILITÀ: ALTA

GENERE: FANTA-THRILLER

ANNO: 2020

Black Box (“Ritrova te stesso” nella versione italiana) è un thriller nato per far parte di una serie di film per la raccolta: “Welcome to Blumhouse” da trasmettere su Amazon prime, lasciamo da parte i noti ma veritieri discorsi su come le piattaforme a pagamento e le pay tv abbiano ormai surclassato (e rovinato) il cinema e concentriamoci su questo fanta-thriller di Emmanuel Osei Kuffour . Il regista di origini ghanesi (rimasto affascinato dal cinema giapponese nel quale ha lavorato diversi anni come regista e produttore) dopo 3 cortometraggi (“Infliction”, “Yuri-chan”, “Born with it”) approda al lungometraggio e mette in piedi un thriller venato di fantascienza, con diversi pregi e alcuni difetti. La sceneggiatura dello stesso Koffour e Stephen Hermann vede come protagonista Nolan un uomo che a causa di un incidente stradale perde sua moglie e come se non bastasse comincia ad avere gravi problemi di memoria e comincia ad avere comportamenti anomali tanto che ad un certo punto vien messa in discussione la sua genitorialità verso al piccola Ava. Il nostro smemorato comincia così una terapia sperimentale con l’aiuto della dottoressa Brooks che grazie ad una ipnosi indotta con un macchinario cerca di aiutarlo a ritrovare la memoria, il nostro infatti durante le sessioni non focalizza i volti dei suoi cari vedendoli come maschere senza volto. Le cose si complicano con l’arrivo di una misteriosa visione: un uomo contorto (che ricorda molto le movenze viste in molti esorcistici) che si muove a scatti frutto del suo inconscio, una sorta di demone antropomorfo e violento che lo aggredisce sempre, una seduta dopo l’altra Nolan comincerà un percorso nel suo inconscio e scoprirà verità sconcertanti. Quello di Kuffour è un thriller basato sull’atmosfera, niente violenza o splatter, un viaggio nell’inconscio il cui elemento fantascientifico è sintetizzato nel macchinario che trasporta l’uomo nella sua sfera inconscia, il personaggio è spesso letteralmente risucchiato nei meandri dei ricordi, la porta che porta all’esterno simboleggia il punto di non ritorno, un posto dove neppure la dottoressa Brooks può aiutarlo. Il regista predilige gli interni per far muovere i suoi personaggi, la regia seppur buona si perde talvolta nell’anonimato a causa di un flavour un po’ televisivo, la sceneggiatura parte da una buona idea la cui soluzione finale però può essere anticipata dagli spettatori più attenti. Mamoudou Athie (“Underwater”, “Jurassic wordl-il dominio”)  è un buon attore ben calato nel suo ruolo di padre malato alla ricerca di una vita migliore, riesce bene a passare dal personaggio positivo alla sua controparte oscura e schizoide, la dottoressa Brooks è ben interpretata da Pylicia Rashad (“Creed- nato per combattere”, “Black Panther”) ed è il personaggio chiave della vicenda il cui retroterra vodoo accennato nel film andava indagato più a fondo, pochi personaggi ma abbastanza caratterizzati, un film buono ma non ottimo, al quale manca quella “marcia in più.”  

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